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OPINIONE

Esterovestizione, da rafforzare la cooperazione tra Stati

La risoluzione dei casi di esterovestizione non può prescindere da una preventiva e approfondita cooperazione istruttoria internazionale tra Stati. Tanto più quando la vicenda è circoscritta all’ambito comunitario ove la questione investe anche altri principi fondamentali del diritto unionale: il principio di libertà di stabilimento e quello di leale collaborazione tra Stati membri. Gli obblighi istruttori assunti nei trattati bilaterali per evitare le doppie imposizioni devono essere concretamente attuati, tanto più che il nuovo modello di convenzione approvato dall’OCSE il 21 novembre 2017 introduce una rilevante novità con riferimento ai criteri per la determinazione della residenza fiscale dei soggetti diversi dalle persone fisiche. La residenza fiscale delle persone giuridiche , infatti, nei nuovi trattati non dovrà più essere determinata attraverso l'individuazione del place of effective management dell’ente, ma mediante mutual agreement raggiunto tra le Autorità competenti degli Stati contraenti.

ACCERTAMENTO

Esterovestizione: c'è un'apertura per il futuro

Per esterovestizione si intende la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società in un Paese diverso dall’ Italia per beneficiare di un regime fiscale più favorevole . L’ onere della prova ricade sull’ Amministrazione finanziaria. Tanti sono gli elementi che possono caratterizzare l’ esterovestizione . Essi vanno dalla localizzazione, alla natura ed all’amministrazione del soggetto esterovestito. Le direttive, gli impulsi e le decisioni partiti tante volte dall’Italia mettono in ginocchio la società controllata. Ora c’è un’ apertura che è stata data dalle sentenze nn.. 33234 e 33235/2018 della Cassazione. Basta che la società estera abbia fra i costi del proprio bilancio quelli relativi al personale assunto . Bisogna fare i conti anche con quanto riguarda la « libertà di stabilimento ». 

L'Agenzia delle Entrate chiarisce la compensazione delle perdite pregresse

L’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 4 del 21 marzo scorso, ha fornito alcuni chiarimenti nell’ambito dell’ attività di accertamento , in quanto, nell’attività di controllo, sono emerse alcune problematiche operative , in particolare, in merito a due fattispecie che di seguito si sintetizzano. La prima attiene alla circostanza in cui, nell’ambito dichiarativo, il contribuente non abbia compensato tutte le perdite pregresse disponibili e utilizzabili nel limite dell’80 per cento del reddito imponibile, ma solo una parte di esse, in modo da usufruire di crediti d’imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto ed eccedenze di cui all’art. 80 del Dpr n. 917/1986, c.d. Tuir, in detrazione dall’imposta dovuta ai sensi dell’ultimo periodo del comma 1, dell’art. 84 dello stesso Tuir. La seconda ipotesi esaminata riguarda la possibilità di ricalcolo del credito per le imposte pagate all’estero, di cui all’art. 165 del Tuir, ai fini della sua detrazione dalla maggiore imposta dovuta in sede di accertamento.

Rimane incerta la tassazione indiretta del trust

Le recenti pronunce della Corte di cassazione in materia di tassazione indiretta del trust non hanno chiarito uno scenario che si presenta ancora estremamente controverso . Per gli operatori, in relazione alle possibili scelte da compiere, è necessario, in ogni caso, effettuare una distinzione tra trust per beneficiari e trust di scopo.

Responsabilità degli enti, differente onere probatorio per apicali e sottoposti

Gli enti possono rispondere in via amministrativa del reato commesso da soggetti appartenenti alla loro struttura organizzativa o da altre persone fisiche che abbiano con loro un rapporto qualificato. Per aversi responsabilità dell’ente, il reato commesso deve essere espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una sua colpa di organizzazione . La colpevolezza dell’ente si distingue poi nettamente a seconda che il reato sia commesso da persone fisiche che si trovano ai suoi vertici o da coloro che si trovano in posizione di sottoposti .

CASI OPERATIVI IVA

IVA

Importazione seguita da cessione intracomunitaria, sì all'esenzione dall'Iva

L’art. 143, paragrafo 1, lett. d), e l’art. 143, paragrafo 2, lett. b), della direttiva 2006/112/Ce, come modificata dalla direttiva 2009/69/Ce, vanno interpretati nel senso che essi ostano a che le autorità competenti di uno Stato membro rifiutino di concedere l’ esenzione dall’imposta sul valore aggiunto all’importazione per il solo motivo che, a seguito di un mutamento di circostanze intervenuto successivamente all’importazione, i prodotti importati sono stati ceduti a un soggetto passivo diverso da quello il cui numero di identificazione dell’imposta sul valore aggiunto era stato indicato nella dichiarazione d’importazione, allorché l’importatore ha comunicato tutte le informazioni relative all’identità del nuovo acquirente alle autorità competenti dello Stato membro di importazione, purché sia dimostrato che le condizioni sostanziali per l’esenzione della cessione intracomunitaria successiva siano effettivamente soddisfatte. È questo, in sintesi, il principio espresso dalla Corte di giustizia Ue nella sentenza emessa in causa C-108/17, esaminando una controversia tra una società lituana e il servizio doganale presso il ministero delle Finanze lituano.

RISCOSSIONE

«Atti impositivi», conta la funzione effettiva non il nomen iuris

La Corte di cassazione ha indicato i criteri per individuare l’ ambito oggettivo della definizione delle liti fiscali pendenti: i giudici di legittimità affermano che non è decisivo il semplice nomen iuris ma occorre verificare, volta per volta, l’ effettiva funzione svolta in concreto dall’atto perché determinati atti (avviso di liquidazione e ruolo) che, tendenzialmente esulano dalla definizione di liti, viceversa, vi rientrano quando assolvono una funzione “impositiva” di rettifica di quanto dichiarato e non di mera liquidazione/riscossione.

CONTENZIOSO

Società non più attive, diniego di rimborso Iva e possibile difesa

L’Agenzia delle Entrate si oppone spesso alla richiesta del credito Iva vantato da società che, pur avendo sostenuto spese propedeutiche all’avvio dell’impresa e avendone corrisposto l’Iva, non hanno effettuato alcuna operazione attiva perché si sono estinte prima del concreto esercizio dell’attività . La cessazione delle società non sempre avviene per la sopravvenuta scadenza naturale fissata nello statuto o per il conseguimento sociale, potendo accadere che la società si sciolga e si estingua a causa, ad esempio, di contrasti tra i soci e/o di impreviste difficoltà a reperire i finanziamenti necessari, ancor prima che sia avviata l’attività. È prevedibile tuttavia che, prima della sua estinzione, la società abbia comunque sostenuto dei costi necessari alla sua costituzione e all’avvio dell’attività, comprensivi anche dell’imposta sul valore aggiunto che, in mancanza dell’avvio dell’attività e di operazioni attive, non è stata mai detratta

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