SOCIETÀ DI COMODO

Verso un rafforzamento della tutela del contribuente

Società non operative, abuso della persona giuridica, test di operatività, presunzioni, cause di esclusione e disapplicazione, carattere "antievasivo" delle norme: sono questi alcuni dei "tasselli" dell'analisi della complessa materia delle società di comodo che Dario Deotto e Francesco Paolo Fabbri, dello Studio Deotto&Partner, fanno in questo numero della Rivista. Prendendo le mosse da una disciplina chiaramente antievasiva, gli autori ci guidano alla comprensione di un fenomeno e di un quadro normativo che negli anni ha subito modifiche e cambiamenti, spesso a scapito del contribuente. In realtà, l'ordinamento offre delle soluzioni per contrastare il fenomeno delle società di comodo, spesso azionate. È auspicabile quindi un intervento legislativo importante in difesa del contribuente.

Strumenti civilistici per contrastare l'abuso del fenomeno societario

In generale, la normativa fiscale viene da alcuni definita come branca giuridica “di secondo livello”; ciò in quanto le fattispecie regolate dal diritto tributario esistono già, a livello normativo, prima di avere la propria considerazione fiscale. Perciò, nell’approccio ai diversi fenomeni di cui alla legislazione tributaria, occorre tenere in considerazione la realtà di volta in volta considerata, al fine della migliore qualificazione e inquadramento per il (successivo) trattamento fiscale. Per questo motivo risulta opportuno considerare il “fenomeno” delle società di comodo nella sua caratterizzazione civilistica, prima che fiscale. Si tratta di una disciplina, quella delle società non operative (o di comodo) che nasce per contrastare il fenomeno del c.d. abuso della personalità giuridica , ossia quell’ utilizzo strumentale - melius , distorto - del veicolo societario , pur senza l’esercizio di alcuna attività economica. Tuttavia, se tale normativa reca, per l’appunto, una caratterizzazione squisitamente fiscale è perché, dal punto di vista civilistico, non si è di fatto riusciti ad arginare detto fenomeno - pur in presenza di strumenti con i quali procedere in tal senso - rimettendo quindi al legislatore fiscale il contrasto alla medesima condotta di utilizzo distorto delle società. 

Presunzioni concatenate per individuare le società di comodo

Il proposito di opposizione all’abuso della personalità giuridica ha trovato concreta attuazione con una normativa che nel tempo ha subito diverse, e non sempre organiche, modifiche. Gli interventi legislativi in materia di società di comodo sono stati frequenti sin dalla venuta a esistenza della disciplina, restituendo un quadro normativo “misto” che desta, a oggi, diverse perplessità. Tuttavia, ciò che è rimasto sostanzialmente invariato, dal principio, è la logica sottostante alla normativa in esame: partendo dal presupposto che l’utilizzo economico dei beni o, almeno, di certe “categorie” di beni è in grado di generare dei “frutti”, ai soggetti che rientrano tra i destinatari delle norme sulle società di comodo viene richiesto di effettuare il “test di operatività” . Test con il quale viene applicato un coefficiente di redditività al valore di taluni asset posseduti dalla società, determinando una soglia di ricavi minimi che, se non superata dai ricavi effettivi, porta a considerare il soggetto come “di comodo”. A ciò consegue poi l’imputazione di ricavi sempre sulla base della stessa logica di fondo, applicando talune (talvolta diverse) percentuali ai beni considerati, restituendo così il reddito della società non operativa. Si tratta, quindi, a ben vedere di una presunzione, o meglio, di una serie di presunzioni fra loro concatenate , le quali, a partire dal mancato raggiungimento di un determinato livello di ricavi, attribuiscono una redditività al soggetto di comodo, così come sarebbe (ipoteticamente) avvenuto qualora detto soggetto avesse operato “effettivamente”.

Disciplina di natura antievasiva per le società non operative

Oltre alla comprensione dell’origine civilistica del fenomeno delle società di comodo e al funzionamento di tale normativa fiscale è altresì opportuno considerare adeguatamente la “tipologia” della disciplina in esame, ossia la sua natura . Questo perché, a partire dall’entrata in vigore della legge 724/1994 - ma, lo si vedrà, ancora oggi - diversi sono stati i fraintendimenti sul fatto che la norma sulle società non operative configurasse una disposizione “antiabusiva”, piuttosto che (come realmente è) “antievasiva” . Le caratteristiche intrinseche della disposizione e il suo funzionamento non possono che condurre ad una considerazione della disciplina come smaccatamente di contrasto all’“evasione”, piuttosto che all’“elusione” (o “abuso del diritto”): mancando qualsivoglia utilizzo delle disposizioni in contrasto con la ratio delle medesime - così come tipicamente accade per l’elusione fiscale - non si può che concludere che l’ istituto delle società di comodo sia venuto a esistenza per contrastare l’evasione fiscale . Qualche dubbio in merito poteva forse sorgere prima della c.d. riforma degli interpelli di cui al Dlgs 156/2015, posto che, all’epoca, l’interpello che il contribuente poteva presentare per non vedersi applicare le norme sulle società di comodo era quello disapplicativo (ex articolo 37- bis , comma 8, del Dpr 600/1973). Tipologia di interpello che aveva come specifica finalità quella di “disapplicare”, per l’appunto, le disposizioni antielusive. Ad ogni modo, come anche riportato dall’Agenzia delle Entrate, oggi l’ istanza di interpello per la disapplicazione della disciplina in analisi è riconducibile a quella di tipo “probatorio” (articolo 11, comma 1, lett. b) , della legge 212/2000), rimuovendo quindi (definitivamente) ogni possibile questione sulla caratterizzazione “antievasiva” di tali norme. 

Soggetti interessati, esclusioni e disapplicazioni

È possibile per il contribuente presentare un’ apposita istanza per vedersi disapplicata la normativa sulle società di comodo. Non si tratta però dell’unica via attraverso la quale risulta possibile impedire, tramite la riportata concatenazione di presunzioni , che una società possa essere considerata “di comodo”, con la conseguente imputazione di ricavi figurativi sulla base di determinati coefficienti di redditività e le ulteriori conseguenze. Sono infatti previste talune ipotesi - di esclusione e disapplicazione essenzialmente - nelle quali, “fisiologicamente”, la disciplina delle società non operative non trova applicazione. Anche tali fattispecie di non applicazione hanno subito mutamenti nel tempo, con l’avvicendarsi delle disposizioni che hanno modificato le norme sulle società non operative. Risulta quindi centrale comprendere le casistiche nelle quali, nonostante l’ipotetica applicazione di tale legislazione “antievasiva” , la stessa non trovi poi di fatto concreta applicazione , in questo modo esentando il soggetto “teoricamente” di comodo da ogni conseguenza che da tale status deriva.

Test di operatività e conseguenze applicative

Il fatto che una società sia considerata “non operativa” ha come presupposto il mancato superamento del “test di operatività” di cui all’articolo 30 della legge 724/1994. Tramite tale test, al valore di ognuno dei beni della società - di quelli considerati dalla normativa in questione - viene applicato un coefficiente di redditività , determinando il livello dei “ricavi figurativi” da confrontare con l’importo dei ricavi effettivamente conseguiti, come media aritmetica, nell’esercizio in questione e nei due precedenti. Qualora detto “test di operatività” non venga superato, alla società non operativa viene imputato un reddito minimo ai fini reddituali (Ires), nonché una base imponibile minima Irap. Inoltre, il soggetto di comodo subisce ulteriori importanti limitazioni anche ai fini delle imposte dirette : in particolare, con riferimento all’Iva, lo stesso soggetto non potrà utilizzare in compensazione c.d. orizzontale il credito Iva risultante dalla dichiarazione presentata nel periodo in cui risulta non operativo, non potendo altresì richiederlo a rimborso. Da ultimo, qualora lo status di comodo sussista per tre anni d’imposta consecutivi, tale importo di credito Iva non sarà più recuperabile in alcun modo, venendo definitivamente perso.

Estensione della disciplina alle società in perdita sistematica

Tra le modifiche di maggior rilievo che hanno interessato la disciplina delle società di comodo vi è quella del Dl 138/2011. Con tale ultimo decreto, infatti, la normativa in esame è stata “estesa” ad ulteriori soggetti, ossia alle c.d. società in perdita sistematica . Si tratta, in particolare, di quelle società che, per un determinato numero di periodi d’imposta (inizialmente tre, ad oggi divenuti cinque ), risultano fiscalmente in perdita . A queste, pertanto, si applica la disciplina delle società non operative , a prescindere dal (mancato) superamento del “test di operatività”. Ulteriormente, sempre con il Dl 138/2011, è stata introdotta una disposizione che ha inasprito le conseguenze in capo ai soggetti considerati di comodo . Difatti, oltre all’imputazione del reddito minimo (e base imponibile minima Irap), per tali ultime società è stata stabilita una maggiorazione dell’Ires di 10,5 punti percentuali. In questo modo, sostanzialmente, rendendo analoga la tassazione subita dalle società di comodo con quella delle persone fisiche tassate con Irpef, ossia i soggetti che, “astrattamente”, utilizzano in modo distorto lo strumento societario.  

Interpello probatorio, un filtro preventivo per disapplicare le norme

A seguito della “riforma degli interpelli” è stato definitivamente chiarito che l’istanza da presentare relativamente alla disapplicazione della normativa sulle società di comodo è riconducibile alla casistica dell’ interpello “probatorio” (articolo 11, comma 1, lett. b) , della legge 212/2000). In questo modo chiarendo definitivamente che la disciplina sulle società non operative è riconducibile al contrasto all’evasione , non invece all’elusione. Tuttavia, oltre a tale “conferma ermeneutica”, l’interpello disapplicativo per le società di comodo assume rilevanza centrale per gli operatori. Ciò, in particolare, in quanto tale istituto permette di richiedere all’Amministrazione finanziaria di esprimersi sulle casistiche di interesse per i contribuenti tramite una sorta di “filtro preventivo” , di carattere amministrativo , in precedenza rispetto al (ben più gravoso) ricorso alla tutela giurisdizionale. Risulta quindi opportuno prendere coscienza, da un lato, del funzionamento dell’interpello “probatorio” nonché, dall’altro lato, degli elementi - le c.d. condizioni oggettive di impossibilità di conseguimento dei ricavi minimi - che, tramite tale istanza, devono essere rappresentate all’Ufficio interpellato al fine di ottenere una pronuncia positiva circa la disapplicazione della normativa in esame.

Gli orientamenti più recenti della giurisprudenza

L’analisi della disciplina relativa all’istanza di interpello “probatorio” ha chiarito un aspetto di particolare interesse: come stabilito dall’articolo 30, comma 4-bis, della legge 724/1994, tramite l’interpello il contribuente deve rappresentare le c.d. oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi della stessa norma. In questo modo l’Amministrazione finanziaria ha modo di valutare la possibile disapplicazione della normativa sulle società non operative. Diversamente, se non si considera tale “filtro amministrativo”, qualora il contribuente giunga in giudizio a seguito di una contestazione di questo genere, lo stesso contribuente potrà rappresentare qualsiasi circostanza al fine di dimostrare la propria natura di soggetto non di comodo. Circostanze tra cui può senz’altro rientrare, se adeguatamente provata in giudizio, la menzionata impossibilità di conseguire i “ricavi minimi” . Quanto appena descritto non è però stato sempre correttamente rappresentato dai giudici (anche di legittimità), i quali si sono talvolta risolti nella richiesta, alla società ricorrente asseritamente di comodo, di dimostrare in giudizio le oggettive situazioni che non le hanno permesso di raggiungere un volume di ricavi tale da evitare di essere considerato soggetto non operativo.

Quali possibilità di difesa per il contribuente?

Non resta a questo punto che fare alcune considerazioni conclusive su ciò che riguarda la difesa del contribuente a cui venga contestato lo status di soggetto di comodo . Il sostrato concettuale alla normativa sulle società di comodo si fonda sul concetto di presunzione e, in particolare, sul concatenamento di due presunzioni . Il mancato superamento del “test di operatività” (o il conseguimento di perdite fiscali per più esercizi), ossia il “fatto noto” , si ricollega - avendolo come conseguenza - al “fatto presunto” , cioè la considerazione della società come “non operativa”. Da ciò, in sequenza, si ottiene il secondo “fatto presunto” , ossia l’imputazione di un reddito minimo (e base imponibile minima Irap) figurativo, al pari del divieto di utilizzare in compensazione il credito Iva o di richiederlo a rimborso. Per questo motivo, risulta evidente che, in caso si dimostri la concreta “operatività” della società - nonostante il mancato superamento del test o le ripetute perdite fiscali per più anni d’imposta - non potrà che decadere anche la presunzione di redditività minima (così come di ogni altra penalizzazione di cui alla disciplina in oggetto). Si è d’altronde già riportato come, in sede giurisdizionale, il contribuente abbia la possibilità di dimostrare la non riconducibilità ad un soggetto di comodo, indicando pertanto il mancato utilizzo “distorto” dello strumento societario (l’ abuso della personalità giuridica ), nella maniera ritenuta più opportuna, ossia portando qualsiasi tipo di prova a tal fine.

loader